È giunto quel momento dell’anno in cui chiunque, persino i babbani, ricorda e onora le creature della notte, gli spiriti e le tenebre, per lo meno per una manciata di ore. Già, persino i babbani, perché chi ama le storie sa che la magia esiste. Come potrebbe non essere altrimenti: le storie permettono di visitare altri mondi, di vivere altre vite.
Se Halloween fa subito pensare a La notte delle streghe di John Carpenter e a moltissimi altri horror, se il Día de Muertos è stato raccontato da Coco in una chiave accessibile a tutti, il film che associo a questo periodo dell’anno è l’inizio di Volver di Pedro Almodóvar - qualcuno lo ricorda? Mi riferisco alla scena al cimitero con le donne affaccendate a strigliare le tombe di famiglia. Sono affezionata a questa immagine così vitale, seppure ambientata al camposanto. Ricorda il fermento delle pulizie di primavera e porta solarità in un contesto che di solito è reso da ben altri toni e colori.
Ovunque tu vada
La stessa vitalità la ritrovo nelle due storie di Neil Gaiman dedicate a Bod, un ragazzino di otto anni che ho conosciuto nel primo racconto della raccolta Il cimitero senza lapidi e altre storie nere (di seguito un estratto) e sviluppata nel romanzo successivo Il figlio del cimitero, entrambi tradotti da Giuseppe Iacobaci e pubblicati da Mondadori. *
Una volta Bod salì su per la collina, alla chiesa abbandonata al centro del cimitero, e attese finché non giunse l’oscurità. Mentre la penombra si avvicinava colorando di tinte violacee il cielo grigio, ci fu un rumore sulla guglia, come lo sventolio di una spessa coltre di velluto: Silas aveva lasciato il suo rifugio sul campanile, saettando giù dalla guglia.
— Cosa c’è nell’angolo più lontano del cimitero, dopo Harrison Westwood, fornaio di questa parrocchia, e le sue mogli, Marion e Joan? — chiese Bod.
— Perché me lo chiedi? — replicò Silas, battendo via la polvere dal vestito nero.
Bod fece spallucce. — Semplice curiosità.
— È terreno non consacrato. Sai cosa vuol dire?
— No.
— Silas camminò lungo il sentiero senza smuovere una sola foglia caduta e si sedette sulla panca di pietra, accanto a Bod. — Ci sono persone che ritengono che tutta la terra sia sacra - disse con la sua voce di seta. — Che sia sacra prima che vi giungiamo, e sacra anche dopo. Ma qui, nella tua terra, benedicono le chiese e il terreno che tengono da parte per seppellire la gente, per renderlo sacro. E accanto al terreno benedetto lasciano della terra non consacrata, fosse dove seppellire criminali e suicidi e quelli che non seguivano la fede.
— Quindi le persone seppellite nel terreno dall’altro lato della cancellata sono cattive?
Silas alzò un sopracciglio in un arco perfetto. — Niente affatto. Vediamo un po’, è passato tanto tempo dall’ultima volta che sono passato da quelle parti, ma non ricordo nessuno particolarmente malvagio. Non dimenticare che ai tempi andati si poteva essere impiccati per aver rubato uno scellino. E c’è sempre qualcuno che giudica la propria vita tanto intollerabile da pensare che la soluzione migliore sia accelerare il trapasso a un altro piano di esistenza.
— Intendi dire che si suicida? — chiese Bod. Aveva circa otto anni, occhi grandi e una grande curiosità, e non era stupido.
— Esattamente.
— E funziona? Sono più felici, da morti?
Silas si lasciò andare a un largo sorriso, mostrando le zanne.
— Certe volte. Ma in genere no. È come chi crede di essere felice andando a vivere da qualche altra parte, ma poi impara che non è così che funziona. Ovunque tu vada, porti te stesso con te. Capisci cosa intendo?
— Più o meno.
Ovunque tu vada, porti te stesso con te.
Per alcuni si tratta di un bagaglio impegnativo da portarsi appresso: il proprio corpo, la propria esperienza, la propria storia. Se la realtà - di un corpo, di un evento - a volte lascia poco margine, diverso è per la propria storia.
Ciascuno di noi è molte storie: non solo il ragazzino che veniva scelto per ultimo quando si faceva la squadra di calcio, non solo la rappresentante d’istituto che capitanò l’occupazione dell’università oppure il capo autorevole e stimato al lavoro, o ancora il figlio che non ha mai tempo per i genitori anziani. Nessuno è un’unica storia, un unico sé. Il collega rompiscatole è anche un genitore amorevole, l’orfano è anche uno studente appassionato. Ogni persona contiene tanti sé, tante storie che esistono contemporaneamente.
* Disney ha sospeso la produzione dell’adattamento cinematografico de Il figlio del cimitero per le accuse di molestie e violenza sessuale che svariate donne hanno mosso a Neil Gaiman. In questi casi, come è accaduto anche con Alice Munro (e le rivelazioni sugli abusi subiti dalla figlia), molti lettori si chiedono se sia giusto continuare a leggere le storie di questi autori.
È un argomento ampio e complesso, analizzarlo significa guardare non tanto alle azioni degli autori incriminati ma a quello che noi lettori ci aspettiamo da loro, non solo in termini di produzione letteraria.
Per come la vedo, la vita di un autore o autrice è altro rispetto all’opera. Per la vita reale, e i reati perseguibili, c’è l’autorità giudiziaria. Per le vittime ci deve essere la giusta tutela e c’è tutta la mia vicinanza umana. La violenza - su un minore, su una donna… - resta violenza, a prescindere da chi la compie.
L’opera letteraria - per come la vedo io, ripeto - sta su un altro piano. Continuo a leggere i racconti di Alice Munro così come le storie di Neil Gaiman. La mia relazione con i personaggi e le trame nate dalle loro penne non è cambiata.
Tutti i sé presenti
Scava abbastanza in profondità e vedrai che tutto quello che è mai successo è vivo e vegeto, un mondo - scene, parole, immagini - che si dipana in un’altra dimensione. Non mi riferisco alla memoria, ma piuttosto a una galassia che esiste al di là della portata limitata della memoria. Può essere identificata, forse, con il luogo in cui finisce la neurobiologia e inizia la fisica. La legge della conservazione dell’energia stabilisce che l’energia totale di un sistema isolato resta costante - si dice che venga conservata nel tempo.
Tutte quelle me stessa - quella folla interiore - protestano dentro di me. La ragazza che credeva che gli uomini l’avrebbero salvata. La giovane donna che mostrava al mondo una se stessa dura e frettolosa - selvaggia ostinazione - e per poco non riuscì nell’obiettivo cieco e affannoso di autodistruggersi. Quella che diceva lo faccio e poi non lo faceva. Quella che teneva diari malgrado tutto. Quella che rovesciò la palata di terra che finì addosso alla sobria bara di pino, due metri sottoterra - una volta, due volte. Quella che diceva lo faccio e poi lo ha fatto davvero. Quella che scriveva libri come se ne andasse della sua vita. Quella che stringeva al seno il suo bambino e cantava Buono piccolino, non piangere. Quella che lo avrebbe salvato o sarebbe morta nel tentativo di farlo. Quella che era scappata dalla città dopo il crollo delle torri. Quella che è cresciuta. Quella - adesso - con un figlio sul punto di diventare uomo, con il suo uomo che lotta con un’anima ferita, consumato da un senso di urgenza. Dai cinquanta agli ottanta.
Da qualche parte, un orologio ticchetta. La sabbia scorre nella clessidra. Non mi interessano più le storie ma quello che c’è sotto le storie: il cuore morbido e pulsante della verità. Perché adesso? Cos’è questa insistenza? Tutta me stessa - la folla intera - vuole saperlo.
Lo scrive Dani Shapiro nel memoir Clessidra, traduzione di Gaja Cenciarelli, Edizioni Clichy.
Sta a me scegliere
Non mi interessano più le storie ma quello che c’è sotto le storie.
Cosa c’è sotto le storie?
È una domanda interessante - la reputo tale proprio perché non ho una risposta. Lascio che la domanda lavori dentro di me, che porti nuove suggestioni, nuove domande.
Quel che so - grazie alla formazione nel lavoro biografico e all’esperienza con tantissimi gruppi di scrittura autobiografica - è che quando si parla di storie autobiografiche, in particolare di storie che forgiano l’identità, spesso sotto c’è un automatismo che fa scattare sempre la stessa narrazione. “Sono la studentessa modello”. “Sono l’autore outsider”. Il racconto monolitico dà certezze ma non restituisce la complessità di un’esistenza.
E io, come mi racconto?
Come mi racconto agli altri? E a me stesso?
Io sono quello che non ce la faccio.
Io sono stanco, anzi, stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio. Oppure no.
Inizia così Bassotuba non c’è di Paolo Nori, Mondadori. Il suo protagonista, Learco Ferrari, prende la parola con una dichiarazione che non lascia spazio a dubbi. Oppure no.
La storia che diventa il biglietto da visita da presentare al mondo - o il proprio riflesso quando ci si guarda allo specchio - può diventare una storia che rende prigionieri. Io sono quello che non ce la faccio. Non c’è scampo.
Ampliare lo sguardo su di sé, imparare a riconoscere, come scrive Dani Shapiro, non solo “Quella che diceva lo faccio e poi non lo faceva” ma anche “Quella che diceva lo faccio e poi lo ha fatto davvero” è il primo passo per alleggerire la zavorra di una storia personale. Io sono quello che non ce la faccio. Oppure no.
È anche un ottimo esercizio di scrittura: i personaggi piatti e monotoni sono poco credibili. Bassotuba non c’è ha ormai vent’anni e non li dimostra: quell’Oppure no fa spiccare il volo a una storia il cui finale pareva già scritto, sin dalle prime parole.
Sono quella che andava male a scuola e non riesce in niente.
Sono quello su cui tutti possono contare.
Sono quello che trova sempre il partner sbagliato.
Sono quella che mette sempre tutti d’accordo… Oppure no.
Cosa potrebbe succedere se si cominciasse a dare una possibilità a tutte quelle me stessa, tutti quei me stesso - a quella folla interiore?
La poesia è una splendida apertura alla possibilità - una delle tante.
Jack Gilbert, in Alone, Solitario, lo mostra in una manciata di righe.
Non ho mai pensato Michiko sarebbe tornata
dalla morte. Ma se l’avesse fatto, sapevo
sarebbe stata una donna in un lungo abito bianco.
È strano sia tornata
come il cane dalmata di un tale. Incontro
l’uomo che la porta al guinzaglio
quasi ogni settimana. Dice buongiorno
e io mi chino per calmarla. Ha detto
una volta che non è mai stata così
attorno ad altra gente. A volte è legata
nel loro prato quando vi passo davanti. Se non c’è
nessuno vicino, siedo sull’erba. Quando
alla fine si acquieta, poggia il muso tra le gambe
e ci guardiamo negli occhi mentre sussurro
nelle sue orecchie soffici. Non le importa
del mistero. Le piace soprattutto quando
le tocco la testa e racconto le piccole
cose dei miei giorni e i nostri amici.
La rende felice come ha sempre fatto.
La traduzione in italiano l’ho trovata qui.
Questa è una newsletter mensile: mi farebbe piacere sapere che ne pensi.
La prossima uscirà il 12 dicembre.
Buon mese di novembre,
Credo che continuerò comunque a leggere Neil Gaiman, e vorrei tanto si facesse il film tratto dal "Figlio del cimitero".
Di recente ho anche sentito una lettura ad alta voce di "I lupi nei muri", illustrato da Dave McKean (tra l'altro) e di grande potenza ritmica.
Per il resto lascio agire anch'io la parte sotterranea delle storie, in attesa trepidante che la notte di S. Lucia porti la nuova puntata di Leggo. Parlo. Scrivo