Mi è capitato spesso, di recente, di incontrare la bellezza: la vista sul golfo di Napoli dal monte Epomeo, la pagina scritta da una studentessa, la villa di Omar Sharif - ora museo - progettata dall’architetto César Manrique. Quale che sia l’origine della bellezza, è certo che in me fa sorgere più di qualche domanda, oltre alla contemplazione.
A quanto pare non sono l’unica: i libri che mi hanno fatto compagnia in queste settimane s’interrogavano eccome, sul tema.
Comincio con una poesia, che nei numeri precedenti della newsletter costituiva il dulcis in fundo, ma perché chiudere in bellezza quando si può esordire in bellezza? Si tratta di un verso celebre a cui anch’io ho reso omaggio chiamando proprio così il mio pc (ma questa è un’altra storia).
Rose is a rose is a rose is a rose.
Se secondo Gertrude Stein “Rosa è una rosa è una rosa è una rosa” (Sacred Emily, 1913), e crea una ripetizione che allo stesso tempo rafforza e amplia il concetto, Rebecca Solnit racconta che Le rose di Orwell sono ben più d’una e sono portatrici di significati diversi, opposti persino, mentre i protagonisti di Dio di illusioni di Donna Tartt fanno i conti con le numerose sfumature che si celano tra i petali della bellezza e nelle sue spine.
Qualcosa di più profondo
Un bel viso. Una bella persona. Un’anima bella. Stesso aggettivo, significati diversi. Bello è così utilizzato nella vita di tutti i giorni da diventare quasi una parola passepartout: “Bello, passami il coso!”.
Una parola vasta che contiene moltitudini: “Mi contraddico? Va bene, e allora mi contraddico”, rispondono il poeta Walt Whitman e la bellezza stessa.
È in questa moltitudine che scivolano, in un viaggio senza ritorno, i personaggi di Dio di illusioni, romanzo di Donna Tartt diventato la pietra miliare del genere letterario dark academia. Non manca niente:
il prestigioso college universitario
gli studenti ricchi e viziati
le materie umanistiche
l’atmosfera crepuscolare
il dramma che si consuma tra le mura del college
Non mancano nemmeno gli indizi per scoprire non tanto chi si è macchiato di omicidio - nessuno spoiler, inizia così: “La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione” - ma per cogliere il vero dramma della storia.
Dramma svelato da Georges Laforgue: il professore di francese conversa con Richard Papen, suo studente nonché protagonista e voce narrante del romanzo. Parlano di Julian Morrow, professore di letteratura classica e greco antico nonché collega di Laforgue:
«Julian non sarà mai uno studioso di prim’ordine, e ciò perché non sa vedere che in maniera selettiva».
Quando io mi opposi strenuamente, chiedendo che cosa ci fosse di male a dedicare la propria completa attenzione a due sole cose, se esse si chiamavano Arte e Bellezza, Laforgue replicò: «Non c’è nulla di sbagliato nell’amore per la Bellezza; ma la Bellezza - se non è sposata a qualcosa di più profondo - è sempre superficiale. Non è che il tuo Julian scelga di concentrarsi solo su alcune cose elevate: è che sceglie di ignorarne altre egualmente importanti».
La bellezza è negli occhi di chi guarda, recita il saggio.
Quello stesso sguardo potrebbe abbracciare un orizzonte ed escluderne volutamente molti altri, altrettanto o più importanti di quel che mostra la superficie delle cose, aggiunge il prof Laforgue.
Accade nei romanzi e nella vita: quante volte ci facciamo ingannare dall’apparenza?
Un senso più ampio
Se il confine tra bellezza e superficialità rischia di essere, a volte, molto sottile, potrebbe dirsi lo stesso della (poca) distanza tra bellezza e privilegio.
Ha senso interrogarsi sulla bellezza quando viviamo in un mondo dove la guerra, le ingiustizie e l’orrore dilagano? Non sarebbe più utile impiegare il tempo per informarsi sull’attualità e sui problemi veri?
Nero o bianco, guerra o bellezza, ci insegna il pensiero dicotomico. E noi ci caschiamo ogni volta perché è una semplificazione che rende la realtà così comprensibile… in apparenza.
La realtà non è semplice né priva di sfumature. Considerare solo i poli opposti, gli estremi - buoni o cattivi, noi o loro… - ci priva di una serie infinita di possibilità. Tra le tante citazioni attribuite al poeta mistico persiano Jalal al-Din Rumi c’è anche:
Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.
Non so se si tratti di un verso autentico di Rumi o se sia un mirabile esempio di instapoetry spacciato per saggezza mediorientale. In ogni caso, l’autore chiunque sia, conosce le insidie del pensiero dicotomico.
Uscire dalla ferrea logica dell’Aut-Aut e frequentare le possibilità che popolano lo spazio tra le categorie opposte potrebbe aprirci a riflessioni nuove, diverse. Potrebbe portarci a cercare - e trovare - la bellezza dove meno ce l’aspettiamo.
Lascio la parola a Rebecca Solnit:
In un saggio del 2005 di Lawrence Weschler intitolato Vermeer in Bosnia ho trovato un’idea più ampia di ciò che l’arte potrebbe fare per la politica, e che mi è rimasta impressa. Weschler, che ha dedicato la sua lunga carriera di scrittore alla causa dei diritti umani in tutto il mondo e anche alla saggistica d’arte, ha chiesto a un giudice del tribunale dell’Aia come riuscisse ad ascoltare per giorni le storie delle atrocità compiute nella ex Jugoslavia durante il conflitto svoltosi a metà degli anni Novanta. Il giudice, racconta Weschler, si illuminò in volto e rispose: «Tutte le volte che posso vado a visitare la Mauritshuis, in centro città, e passo un po’ di tempo con i Vermeer».
Per molto tempo dopo aver letto quel saggio, ho pensato che quei Vermeer fossero molti, ma in realtà alla Mauritshuis ce ne sono solo tre: un’opera giovanile, Diana e le ninfe; il famoso ritratto della Ragazza con l’orecchino di perla, e la quasi altrettanto famosa Veduta di Delft, con quelle nuvole che sono la cosa più grande di qualsiasi altra nel dipinto e si stagliano nel cielo azzurro che sovrasta delle figure umane, un paesaggio urbano e un canale. Tanto le nuvole sono leggere ed evanescenti, quanto compatti e solidi sono gli edifici; l’acqua azzurra del canale riflette entrambi. In primo piano di tutta quella vastità, ci sono due donne che conversano. Chiaramente, i dipinti di Vermeer non parlano direttamente di guerra o di giustizia o di leggi o di come intervenire per aggiustare ciò che non va nella società; non raccontano notizie e non fanno propaganda per nessuna causa. In Diana e le ninfe, una donna in ginocchio lava i piedi di un’altra donna mentre altre due osservano la scena e un’altra ancora è girata di spalle: un momento plebeo tra divinità. Weschler ricorda che Vermeer lavorò in un momento storico turbolento, flagellato dalla guerra, e che «la pressione di tutta quella violenza, ricordata, immaginata, prevista, è il soggetto di tutti quei dipinti», nel senso che i dipinti sono il suo opposto, che parlano della pace che tanto desideriamo in tempo di guerra, della quiete nel frastuono, della perseveranza e della bellezza della vita di tutti i giorni.
L’idea che l’arte debba esortarci a fare qualcosa contiene la sottovalutazione dei bisogni e dei desideri di coloro che sono già impegnati a favore di qualcosa e di ciò che li spinge, e di ciò che in senso più ampio dovrebbe essere la costruzione di una società al cui centro ci sono la giustizia e la compassione.
Il saggio dipinge un Orwell che si batte al fianco degli oppressi e coltiva rose con passione, indaga le peripezie del fiore diventato simbolo dell’amore e portatore di sofferenze indicibili per i coltivatori impiegati nelle serre intensive che spediscono rose in tutto l’Occidente, porta sulla stessa pagina le atrocità della guerra e l’incanto per le opere di Vermeer.
Una lettura, un filo di Arianna per uscire dal dedalo del pensiero dicotomico.
Cominciare da subito
Una bellezza che si sviluppa in profondità e in ampiezza.
Un concetto nobile, ma sarà possibile renderlo concreto nella vita di ogni giorno per imparare a riconoscerne e celebrarne la bellezza? Una sorta di resistenza consapevole che è al tempo stesso armonia e responsabilità?
C’è chi passa un po’ di tempo con i Vermeer e chi, come Virginia Woolf, persevera in altro modo. Le parole che seguono sono nate in tempo di guerra.
Nel 1939 scrive nel suo diario: “Bombe come questa cadono su abitazioni come la mia a Varsavia” e supera la logica nemico-amico cara al pensiero dicotomico.
Nel 1940 all’angoscia per la guerra si unisce quella per la letteratura in pericolo, come lo è tutto ciò che crea bellezza quando a governare è la devastazione.
Virginia Woolf si rivolge così agli amici scrittori.
Scriviamo ogni giorno, scriviamo in tutta libertà, ma confrontiamo quello che scriviamo con quello che hanno scritto i grandi. È mortificante, lo so, ma essenziale. Se vogliamo preservare e creare, è il solo modo. E noi faremo tutte e due le cose. Non dobbiamo aspettare che la guerra finisca. Possiamo cominciare da subito… Leggere, leggere bisogna; in modo onnivoro, e di tutto, poesia, narrativa, teatro, romanzi, storie, biografie, libri vecchi e libri nuovi… Senza lasciarci intimidire perché siamo ignoranti. Sarebbe un crimine fatale nei confronti di Eschilo, Shakespeare, Virgilio e Dante - i quali se potessero parlare - e lo possono fare, direbbero: non lasciateci in mano ai professoroni, ai porporati. Leggeteci, leggeteci per vostro conto. A loro non importa se sbagliamo un accento… E ricordatevi il consiglio di un eminente vittoriano, mio padre, che era un grande camminatore, e agli altri camminatori come lui, diceva: dovunque vediate un cartello con scritto “vietato l’ingresso”, entrate immediatamente. La letteratura non è proprietà privata; la letteratura è terra comune. Non è suddivisa in nazioni; niente guerre. Entriamo liberamente e senza paura, e cerchiamo da soli la nostra strada. È così che la letteratura inglese sopravvivrà a questa guerra e supererà l’abisso - soltanto se la gente comune, i civili e i profani come noi faranno di quel paese, la letteratura, il paese di tutti. Solo se impareremo a leggere e a scrivere tutti, e a conservare e a creare.
La citazione fa parte del saggio The Leaning Tower ed è tradotta da Nadia Fusini nella raccolta Un anno con Virginia Woolf.
Non lasciamo che il suo appello resti inascoltato.
Scriviamo, leggiamo, cominciamo da subito con i versi di Patrizia Cavalli che aprono il testo in prosa Scarpe da ballo. Quando la bellezza si sposa con la profondità si può scrivere di tutto, shopping compreso.
Entrai verso le cinque nel negozio,
ero con Mary, l’esperta appassionata
compratrice, la gran collezionista
che aveva un piano della sua casa a Morton
pieno di enormi borse a scacchi plasticate
con dentro aggrovigliato il repertorio
intero di Miyake. Sembrava un cimitero
ingombro e desolato. Ma poi ad aprirle
le borse si animavano: quegli straccetti
cadaveri compressi, spesso tarlati,
ora risorti alle forme originarie,
Mary guardandoli se li appoggiava al petto,
giocava un po’ con loro, li scaldava,
e i fortunati, magari due minuti,
l’indossava. E poi di nuovo dentro,
e arrivederci. Cos’altro ci poteva fare,
erano troppi. Ma alcuni perlomeno
restavano negli occhi.
Questa è una newsletter mensile: mi farebbe piacere sapere che ne pensi.
La prossima uscirà l’8 agosto.
Buon mese di luglio,
Cara Silvia, ti ringrazio. Un grande della letteratura un giorno scrisse “La bellezza salverà il mondo”. Ne sono sempre stata convinta. L’arte mi ha spesso salvata da momenti difficili. La natura anche. E poi le persone, tutte, ‘senza se e senza ma’. È lo sguardo che fa la differenza. E penso che accada anche quando si scrive e si legge. Grazie 🙏
Grazie Silvia. Mi hai fatto tornare a Perfect day di Wenders.. concentrarsi sulla bellezza senza escludere la vita. Da tempo penso che ci salverà l' e/e e non o/o. Sempre bello bello leggerti, per l'appunto.