Le parole sono importanti: quante volte l’abbiamo sentito dire? Se il Michele Apicella di Nanni Moretti ha reso indimenticabile questo insegnamento, altri personaggi di nuove storie lo mantengono vivo e più urgente che mai.
Ci ho pensato spesso all’importanza delle parole mentre leggevo Demon Copperhead di Barbara Kingsolver, Premio Pulitzer 2023 tradotto da Laura Prandino e pubblicato da Neri Pozza — nonché vecchia conoscenza della newsletter.
La storia è un omaggio dichiarato al mondo narrativo di Charles Dickens e l’importanza delle parole serpeggia lungo tutto il libro, colorandosi di varie sfumature.
Per questa newsletter ho scelto tre estratti proprio da questo romanzo. Niente spoiler, si tratta di una manciata di righe (che non svelano la trama) tratte da un libro di ben 656 pagine.
Lettura lunghe per una newsletter… non brevissima. I prodi che arriveranno in fondo alla mail troveranno una ricompensa, proprio come accade nelle grandi storie.
Parole come superpotere
Ci sono parole che nascono per ferire ma vengono trasformate in un’arma che rende imbattibili. Lo racconta il protagonista del romanzo, Demon, un ragazzino nato e cresciuto negli Appalachi meridionali, una landa ormai desolata e conosciuta soprattutto per le miniere abbandonate, la disoccupazione e la dipendenza da oppiacei dei propri abitanti, chiamati in modo dispregiativo hillbilly. È un appellativo che non viene tradotto ma che potrebbe equivalere a ‘montanari, zoticoni’.
… una volta Mr Peg era fuori a fumare vicino al suo pick-up e io cazzeggiavo lì attorno, e mi venne in mente di chiedergli perché aveva quell’adesivo, Hillbilly Cadillac. Gli chiesi se voleva dire qualcosa di brutto, e la sua risposta mi lasciò di stucco: «hillbilly» è come quella parola impronunciabile e razzista che comincia per N. Ovviamente gli dissi quello che sanno tutti, la parola che comincia per N non va mai usata, la usano solo le teste di cazzo. Lui disse che era vero, ma c’è chi la dice e non sono bianchi teste di cazzo. Che poi è vero, Ice Cube, Jay-Z, Tupac. Non che Mr Peg andasse matto per quelli, anzi non li sopportava, però a volte in casa si sentivano, per colpa mia e di Maggot, così li conosceva anche lui. A quelli piaceva proprio, la parola che comincia per N. Mr Peg mi spiegò che la parola che comincia per N l’avevano inventata altre persone, non Ice Cube. E altri ancora avevano inventato «hillbilly» per noi, al solo scopo di fare le teste di cazzo. E invece per errore ci hanno dato un superpotere. Non furono le parole precise di Mr Peg, ma era così che avevo capito io. Usandola noi, quella parola, gli dimostravamo che non potranno mai essere noi, e neppure ferirci, che eravamo intoccabili dalle loro stronzate.
Appropriarsi delle parole. Afferrare al volo il boomerang che vortica minaccioso alla massima velocità per farlo diventare la propria arma, difensiva e di attacco. Ci vuole una certa destrezza, la capacità di prendere le distanze dal proprio orgoglio ferito e tanta consapevolezza per comprendere che il potere evocato da una parola può acquisire significati diversi.
Hillbilly.
La parola che comincia per N.
Il lessico dell’omofobia che diventa slang, seguendo lo stesso processo di trasformazione raccontato da Demon.
Quali sono le parole che mi hanno ferita, ferito?
Come potrebbero diventare il mio superpotere?
Quale trasformazione va messa in atto perché ciò avvenga?
Parole che fanno rinascere
Le storie non sono fatte solo di protagonisti. La letteratura pullula di personaggi secondari che per complessità non hanno nulla da invidiare ai principali. Di certo questo è vero per Demon Copperhead e per il suo compagno di sventure e di casa famiglia, Fast Forward, che può godere della popolarità e del benvolere di tutti in quanto giocatore di football nella squadra cittadina.
Fast Forward disse che ogni membro dello squadrone aveva un nome segreto che lui solo poteva assegnare, compresi i ragazzi che non stavano nemmeno più qui. Adesso dovevo ricevere il mio. Tommy era Bones, Ossa, per via degli scheletri che disegnava e anche perché, sotto sotto, Tommy aveva buone ossa. Si vedeva. E Svitato era Wild Man, Selvaggio. Adesso toccava al Demon.
Mi guardò a lungo. La testa un po’ all’indietro, i riccioli scuri scompigliati, gli occhi socchiusi come se mi frugasse nel cranio. Alla fine disse: «Diamond. È brillante e luccica e vale un sacco. Più duro di qualsiasi altra cosa».
Per un ragazzo parlare in quel modo, o anche solo fissare così un altro ragazzo non era normale. Intendo per un ragazzo etero che preferiva le ragazze, com’era senza dubbio Fast Forward. Ma Tommy e Svitato si limitarono ad annuire, sì, eccellente. Diamond. Senza una traccia di imbarazzo, era la magia di quel ragazzo. Le sue parole erano vangelo, e ti sentivi più grande per il semplice fatto che ti aveva notato.
Okay, dissi, ma credevo che i diamanti fossero roba da ricchi, o per le ragazze che si fidanzavano.
Lui disse: «Anche. Quello che hai tu, vedrai che le ragazze lo vogliono».
Ero in imbarazzo, ovvio, e gli dissi che non c’era verso, ma lui disse che su certe cose non si sbagliava mai. Dovevo stare a vedere.
Dare un nome significa dare un senso, prima ancora significa portare alla luce. Ricevere un nuovo nome è come rinascere. È quel che accade al protagonista: la madre lo chiama Damon, tutti quelli che lo incontrano storpiano il nome in Demon e, fino all’incontro con Fast Forward, il ragazzo non vede altro che le parole che gli restituiscono gli altri: Demone Urlante, Seme del Demonio...
Non accade solo a Demon. Il nome è la parola che contraddistingue ciascun personaggio, ciascuna persona. È una certezza, un segno di riconoscimento, ma è anche una strada a senso unico. Tanto che quando un personaggio cambia strada, cambia anche il nome. Accade a Walter White che, in Breaking Bad, cambia il proprio destino e diventa Heisenberg. Nessun personaggio ben costruito e, di certo, nessuna persona, è riconducibile a un’unica storia.
Quali parole potrebbero risvegliare nuove parti di me?
Quali nomi?
Parole che volano
Demon incontra tantissimi personaggi sul proprio cammino. Uno di questi è l’anziano Dick che ha un rapporto particolare con le parole e con le storie.
Una mattina lo trovai con la sedia a rotelle accostata alla scrivania, intento a qualcosa che sembrava assorbirlo. Non stava leggendo, scriveva. Sull’aquilone. Da piccolo avevo avuto quegli aquiloni del negozio tutto a un dollaro, ma il suo non era un aquilone normale come quelli. Era fatto in casa, con le stecche per il tabacco e la carta bianca a rotoli. Mi disse di avvicinare una sedia, così mi misi a sedere accanto a lui e lo guardai scrivere sull’aquilone. Aveva la grafia più minuta e ordinata che avessi mai visto produrre da un essere umano. Per essere così storto nel corpo, le sue righe erano più dritte che mai. E anche lento come una lumaca. Gli ci voleva una vita per finire una frase: Così giovani, eppure così saggi, dicono che non abbian vita lunga… Parole che non avevano un gran senso, ma probabilmente vere. Aveva scritto altre frasi su tutto l’aquilone. Tipo un centinaio. Il mio sguardo cadde su: Non state a disputar con lei. È pazza. Ma poi ce n’era un’altra che diceva: Ho deciso di fare il delinquente, e di odiare gli oziosi passatempi di questa nostra età. Non ne venivo a capo. Non c’è bestia che sia tanto feroce da non conoscere almeno un briciolo di pietà. E al centro, in caratteri più grandi:
E se muoio, nessuna anima viva avrà pietà di me.
Perché, del resto, ne dovrebbe avere,
se sono io stesso a non trovare mai
in fondo all’anima alcuna pietà verso me stesso?
Gli chiesi di cosa parlavano, e lui diede un colpetto al libro sulla scrivania che aveva appena finito. Voleva copiare tutto il libro sull’aquilone? No. Solo le parti che gli erano piaciute di più.
«E poi che succede?»
Indicò la finestra e con la mano fece segno su, su.
«Fai volare l’aquilone?»
Fece sì con la testa. Disse che spesso, dopo aver letto un libro, avrebbe voluto ringraziare chiunque l’aveva scritto, ma di solito erano morti. Sul suo libro c’era un nome che avevo già sentito. Shakespeare. Morto, evidentemente.
«Quindi è un po’ come recitare il ringraziamento?»
Fece segno di sì. Proprio così. Però mia nonna aveva detto che non si faceva, in quella casa. Quanto meno, non a Dio. Ringraziare Shakespeare e gli altri, a quanto pare, andava bene.
La gratitudine, che incantesimo potente.
A pensarci bene, un incantesimo è composto da parole. Parole considerate così eccezionali da modificare la realtà. Una parola al giorno indica che la radice di incantesimo deriva da carmen: canto, poesia, profezia.
I versi di Shakespeare sono incantesimi le cui parole cambiano la realtà di chi le riceve: commuovono, sconvolgono, divertono. Passano i secoli e loro tornano in scena per raccontare ancora e ancora le luci e le ombre dell’animo umano. Le parole sull’aquilone di Dick si librano in volo e mettono in comunicazione cielo e terra.
Ringraziare significa prendere consapevolezza di non essere soli, di vedere il buono che c’è attorno.
Per cosa posso e voglio ringraziare?
Qual è il mio incantesimo?
Quali sono le parole tanto potenti da cambiare la mia realtà?
Parole di potere
La poesia è, per quanto mi riguarda, un incantesimo capace di modificare la realtà. Certe poesie cambiano il mio sguardo sul mondo, mi permettono di vedere quel che prima non c’era. Ecco perché le includo nelle mie newsletter: la magia va condivisa.
Alla fine di una mail sul potere delle parole e sul ringraziamento parrebbe d’obbligo salutarsi con Altra poesia dei doni di Jorge Luis Borges o con Ringraziare desidero di Mariangela Gualtieri. Sono poesie molto conosciute e consapevoli: chi ringrazia ha notato la gentilezza, la prosperità, il buono che lo circonda.
Preferisco puntare questa piccola luce su chi se ne va sicuro per la propria strada, ignaro dei doni sul cammino, invisibili ma presenti. A me capita spesso. Poi succede qualcosa di impercettibile e tutto cambia. Lo racconta Tess Gallagher in Choices, Decisioni.
Vado sul lato della casa che dà
sulla montagna a tagliare arbusti
per liberare la vista sulla neve
della vetta. Ma appena alzo gli
occhi,
con la sega già pronta, vedo un nido
aggrappato ai rami più alti.
Quello non lo taglio.
E non taglio neanche gli altri.
D’un tratto, su ogni albero,
un nido invisibile
al posto della
vetta.
a Drago Stambuk
La poesia è tradotta da Riccardo Duranti e si trova nella raccolta Viole nere. Poesie e racconti scelti, Einaudi.
Per chi ama scrivere, oltre che leggere, condivido un buono sconto per il corso online La gioia di scrivere. Sei lezioni in live streaming (e registrate): tre tenute da Matteo B Bianchi e tre, di laboratorio, con me. Il corso è organizzato da Lucy e La Content.
Il codice sconto è SILVIA10, valido fino al 20 dicembre. Così il prezzo del corso diventa 126€. Le lezioni iniziano il 13 gennaio.
Questa newsletter esce una volta al mese, in quelle che chiamo le date gemelle.
La prossima arriverà l’1 gennaio. Nel frattempo, se ti va, fammi sapere che ne pensi.
Buone feste,
Mi hai fatto venire una voglia matta di leggere "Demon Copperhead".
Ciao Silvia, in questo periodo sto leggendo proprio Demon Copperhead e riconosco l’importanza delle parole di cui hai scritto. Le parole ci definiscono e fanno esistere ogni cosa. Sempre grazie.