A settembre si ricomincia, si dice. È il vero inizio dell’anno, si dice ogni anno.
Un anno fa, a settembre, lasciavo un lavoro a cui avevo dedicato ogni minuto degli ultimi tre anni della mia vita. Un lavoro che avevo cercato, voluto, da cui ho imparato tanto e a cui ho dato tutto, così tutto che non era rimasto altro. Fine settimana, relax serale, feste comandate e vacanze potevano aspettare: c’era da lavorare.
L’obiettivo che perseguivo con tanta determinazione si faceva sempre più vicino, rinuncia dopo rinuncia, e quando finalmente riuscivo a raggiungerlo e superarlo se ne parava subito davanti un altro, come nei videogiochi. E, come nei videogiochi, dopo tre anni di gara - iniziata come una sfida con me stessa - mi sono resa conto che stavo consumando troppe vite.

Così sono scesa da quella giostra impazzita che, ho scoperto leggendo Le grandi dimissioni di Francesca Coin e in particolare il racconto dell’esperienza di Viola, professionista in ambito culturale, si chiama trappola della passione:
La storia di Viola è la cartina tornasole del lavoro in Italia: mostra come la «trappola della passione», la decisione di assecondare un’idea del lavoro fondato sull’amore e la devozione, rimandi spesso alla richiesta dispotica di dimostrarsi sempre disponibili, ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, senza mai staccare davvero e senza il tempo di pensare a una reale volontà di disconnessione. La trappola della passione è dunque il sintomo di una cultura del lavoro che si serve della passione come esca per estorcere una disponibilità completa.
Le grandi dimissioni non è solo una fotografia del fenomeno che ha portato molte persone a licenziarsi durante la pandemia. È un’analisi di come sia cambiato e di cosa sia diventato il lavoro in Italia per parecchi settori professionali: dalla grande distribuzione alla sanità alla ristorazione alla cultura, per fare alcuni esempi. Sembrano ambiti lontanissimi l’uno dall’altro, eppure sono collegati da attitudini e prassi di cui non c’è da andare fieri.
Quando la fiction racconta la realtà
Un classico argomento da saggistica, verrebbe da pensare. Non è proprio così: chi ha guardato The Bear, la serie tv che ha fatto incetta di premi ed è giunta alla terza stagione (su Disney Plus), sa che questi argomenti possono diventare una narrazione potente. L’ennesima conferma del fatto che non è tanto importante quel che si racconta ma come lo si racconta.
Un’intervista al creatore della serie Christopher Storer riprende molti temi che ho incontrato ne Le grandi dimissioni e ne Il lavoro non ti ama di Sarah Jaffe (traduzione di Rocco Fischetti, minimum fax).
Lo stress collettivo post-pandemia, gli ambienti di lavoro tossici, le conseguenze del capitalismo avanzato, le relazioni con colleghi e clienti, la competizione sfrenata, il peso delle attività e delle situazioni che non hanno direttamente a che fare con il proprio lavoro ma che sottraggono troppo tempo ed energie. Tanto che, anche chi raggiunge l’eccellenza, a un certo punto decide di fermarsi.
- Chef, io… non credo di averti mai detto quanto ho imparato in questo posto.
- Quanto hai imparato?
- Davvero tanto. Grazie.
- Beh, anche io ho imparato molto.
- Ah sì?
- Sì. Ho scoperto che voglio dormire di più, tornare a Londra più spesso, andare a più feste, incontrare più persone.
- Vivere.
- Precisamente.
- Per questo chiudi?
- Esatto. Sì, signore. Ma ho potuto fare tutto quello che volevo, nel modo che volevo e… con le persone che volevo, quindi… non avrei potuto chiedere di più.
Vivere. Precisamente.
Fermarsi è l’unica opzione? Dipende da molti fattori.
Per quanto mi riguarda, ho smesso di lavorare senza tregua ma continuo a progettare corsi, a fare consulenze e a insegnare. In poche parole, continuo a lavorare: solo, in modo diverso.
È un work in progress, un modo che sto cercando e sperimentando ancora oggi, a un anno da quella fine e nuovo inizio. Se la lettura del libro di Francesca Coin mi ha dato molti spunti di riflessione, le parole che riecheggiano in me, dopo aver visto la terza stagione di The Bear, arrivano da un ricordo del protagonista.
Carmy è al suo primo giorno di lavoro in uno dei migliori ristoranti al mondo. È giovane, inesperto, nervoso. Lo chef si ferma alla sua postazione per conoscerlo. Lavorano insieme, lo chef è molto generoso negli aneddoti, nelle spiegazioni, nel condividere la propria visione del lavoro.

- Noi siamo qui grazie a coloro che sono venuti prima di noi. Per te, oggi, è il primo giorno.
- Sì chef.
- E lascerai la tua eredità in questo ristorante quando te ne sarai andato, quindi devi metterti in testa di venire a lavorare ogni giorno e cercare di fare un pochino meglio del giorno precedente. Solo un po’ meglio. Con solo un po’ più di impegno. Questo si sommerà nel corso degli anni che trascorrerai qui, e quando te ne andrai porterai con te formazione, pratica, tecnica… avrai tante opportunità.
È passato un anno, da quell’inizio che sembrava una fine.
A questo punto, di solito, le storie stupiscono con un finale a sorpresa o con la ricetta che garantisce un nuovo stile di vita e la realizzazione di ogni desiderio: mangia, prega, ama.
La ricetta magica per realizzare il perfetto “work life balance” non l’ho ancora trovata. Quello di cui sono certa, nell’incertezza della vita - e del lavoro, per noi freelance - di ogni giorno, è che le storie danno sempre buoni consigli.
Fare un pochino meglio del giorno precedente. Solo un po’ meglio. Con solo un po’ più di impegno. E Vivere. Precisamente. Per ricominciare, mi pare un bel piano d’azione.
La poesia di questo mese è di Linda Pastan ed è tratta da Insomnia: Poems.
Mi dici di vivere ogni giorno
come se fosse l'ultimo. Questo è in cucina
dove prima del caffè mi lamento
del giorno che inizia, questa corsa a ostacoli
di minuti e ore,
di negozi di alimentari e di medici.
Ma perché l'ultimo? Chiedo. Perché non
vivere ogni giorno come se fosse il primo —
tutto puro stupore, Eva che si strofina
gli occhi svegli quella prima mattina,
il sole che sorge
come un ingenuo a oriente?
Tu macini il caffè
con il piccolo ruggito della mente
che prova a chiarirsi. Io ho apparecchiato
la tavola, guardo fuori dalla finestra
dove la rugiada ha battezzato ogni
superficie vivente.
La traduzione in italiano l’ho trovata qui.
Questa è una newsletter mensile: mi farebbe piacere sapere che ne pensi.
La prossima uscirà il 10 ottobre.
Buon mese di settembre,
Sono entrata in una nuova fase della mia vita, credo di esserci entrata troppo tardi ma anche non fosse così non riesco a pensare diversamente. In questa nuova fase la tua newsletter è arrivata nel momento giusto a insegnarmi qualcosa, a dare nome a qualcos’altro e ad augurarmi un buon inizio di anno. Grazie mille Silvia.
Che bella puntata, Silvia. Il racconto che hai fatto della terza stagione di "The Bear" è luminoso. Io l'ho trovata ancora più sorprendente delle due precedenti e a ogni puntata mi è sembrato che i personaggi diventassero più veri, più onesti con sé stessi nel riuscire a comprendersi e comprendere chi e che cosa gli stava attorno. E ogni puntata è diventata un collegamento più profondo con tante situazioni reali.