Le storie si possono dividere in tante categorie, se proprio lo si vuole fare.
Ci sono i libri - così come i film, le serie tv… - in cui ci identifichiamo con il o la protagonista, il suo carattere e i suoi patimenti, mentre altri presentano personaggi con un’indole, reazioni e pensieri lontanissimi dai nostri.
Le trame e i personaggi che ci rispecchiano sono la nostra zona di comfort, sosteneva Paola Lagossi, una dei docenti del master che frequentai alla Scuola Holden. Non c’è niente di male nel cercare propri simili tra le pagine di un libro, ma se davvero vogliamo ampliare gli orizzonti è importante spingersi là dove non troviamo appigli.
Il che significa dedicare il proprio tempo a pagine che raccontino storie a noi estranee, in cui non troviamo punti di contatto con i personaggi che le abitano. Questo, e non solo il numero di volumi letti in un anno, ci rende lettori forti.
All’epoca avevo 24 anni, un appetito vorace per le storie e il bisogno, naturale in quella fase della vita, di imparare dall’esperienza diretta. Ascoltai gli insegnamenti della prof. Lagossi e mi ributtai a capofitto nelle mie letture, senza stare troppo a chiedermi se fossi o meno in una zona di comfort.
Per comprendere a fondo il significato della sua affermazione mi ci sono voluti una ventina d’anni: di libri, letture e riletture, di un bel po’ di vita. Tra amori, lutti, nascite, traguardi professionali e nuovi inizi ho incontrato non solo personaggi ma anche voci e stili diversi da quella che per me era la norma. Sono personaggi scomodi che si muovono dentro trame poco convenzionali.
Scomodo. Dal vocabolario Treccani:
Di persona che, per le sue idee e il suo modo di agire improntati ad anticonformismo e a intransigenza morale, mette in crisi l’ambiente in cui opera in quanto ne turba gli equilibri comunque raggiunti: un personaggio scomodo.
Eppure, a quelle storie voglio un bene speciale.
Lo so che un bene speciale è infantile, non si scrive. Lo faccio comunque perché alcuni personaggi mi hanno accompagnata in momenti in cui di appigli, nella vita, ne avevo pochi - per mia scelta o per scelta del destino. Le loro vicissitudini, tratte dalla realtà o frutto della fantasia dell’autore o dell’autrice, mi hanno mostrato che non c’è mai una sola risposta, che a volte non si tratta di rispondere ma di creare dal nulla una nuova domanda, che giusto e sbagliato, buono e cattivo spesso sono interpretazioni personali. Mi hanno insegnato a prendermi meno sul serio.
“Hai qualcosa qui”
Di Ottessa Moshfegh si è scritto di recente perché a marzo è uscito il suo nuovo romanzo, McGlue, e perché non è sui social né li usa. Ne scrivo oggi perché ho letto Il mio anno di riposo e oblio e ci ho trovato una protagonista che si concede comportamenti e risposte che molti autori e autrici, soprattutto agli inizi, non permetterebbero mai ai propri personaggi.
Chi muove i primi passi nella scrittura e nella narrazione spesso è sensibile, molto sensibile, al giudizio altrui. Il che si traduce nel raccontare storie in cui il lettore non solo si possa rispecchiare, ma dove i personaggi diventano l’alter ego edulcorato di chi legge ed emanano un riflesso più virtuoso di quello che potrebbe restituire la realtà. Un po’ come le luci e gli specchi dei camerini di certi negozi che restituiscono un’immagine di noi più snella, più alta, più radiosa.
La protagonista de Il mio anno di riposo e oblio non teme nulla di tutto ciò.
Si tuffa a capofitto nell’annullamento da farmaci per dormire il più possibile e, nei brevi periodi di veglia e dormiveglia, mette in scena la parte di sé che i bolognesi, che di piacevolezza se ne intendono, definirebbero sgodevole.
Insomma, qualcuno con cui non si vorrebbe prendere nemmeno un caffè.
I ragazzi che lavoravano alla bodega erano tutti egiziani. Oltre alla mia psichiatra, la dottoressa Tuttle, la mia amica Reva e il portiere del mio palazzo, gli egiziani erano le uniche persone che vedevo regolarmente. Erano relativamente carini, alcuni più di altri, mascella squadrata, fronte virile, sopracciglia grosse come millepiedi. E sembrava che avessero l’eyeliner, tutti. Erano sei o sette, molto probabilmente fratelli e cugini. Il loro stile era un deterrente. Portavano maglie dei calciatori e giacche di pelle da moto e catene d’oro con la croce e tenevano la radio sempre sintonizzata sulla musica pop di Z100. Avevano zero senso dell’umorismo. Appena mi ero trasferita nel quartiere flirtavano di continuo, erano quasi fastidiosi, ma quando avevo cominciato ad arrivare agli orari più strani con le cispe negli occhi e la saliva secca agli angoli della bocca non si erano più sforzati di conquistare le mie simpatie.
”Hai qualcosa qui”, mi aveva detto un mattino il tizio al bancone, indicandosi il mento con le lunghe dita scure. Avevo sventolato la mano. Più tardi mi ero resa conto di avere la faccia piena di croste di dentifricio.
Qualcuno che parla così della sua unica amica.
Una notte la fotografai con la Polaroid e infilai la foto nella cornice dello specchio in soggiorno. Reva pensava fosse un gesto amorevole, ma la foto per me era un memento di quanto poco mi divertiva la sua compagnia se mi veniva voglia di chiamarla quando ero sotto l’effetto dei farmaci.
E parla così del sonno, mai abbastanza, e della sua volontà di piombarci dentro per un anno intero.
Mia madre diceva sempre che se non riuscivo a dormire dovevo contare qualcosa che importava, tutto tranne le pecore. Conta le stelle. Conta delle Mercedes. Conta i presidenti americani. Conta gli anni che ti restano da vivere. Potrei saltare dalla finestra, pensai, se non riesco a dormire. Tirai la coperta sul petto. Contai le capitali di Stato. Contai diversi tipi di fiori. Contai le sfumature di blu. Ceruleo. Cadetto. Elettrico. Petrolio. Tiffany. Egiziano. Persiano. Oxford. Non dormivo. Non avrei dormito. Non riuscivo a dormire. Contai tutti i tipi di uccelli che mi venivano in mente. Contai i programmi televisivi dagli anni ‘80. Contai i film ambientati a New York. Contai persone famose che si erano suicidate: Diane Arbus, gli Hemingway, Marilyn Monroe, Sylvia Plath, van Gogh, Virginia Woolf. Povero Kurt Cobain. Contai le volte in cui avevo pianto da quando erano morti i miei genitori. Contai i secondi che passavano. Il tempo poteva andare avanti così per sempre, ripensai. Sì, sarebbe stato così. L’infinito sarebbe stato per sempre all’orizzonte, con o senza di me. Amen.
Un anno fuori dal mondo, dalle relazioni, dalla vita. Un anno per assimilare il lutto per la morte dei propri genitori, la fine di una storia, per lasciare spazio alla parte meno lusinghiera di sé e affrontare il passaggio dalla giovinezza all’età adulta.
Un libro in cui la protagonista rompe molti canoni e lo stesso fa la trama.
Succede poco, in apparenza. Del resto, è la storia di una giovane donna che vuole solo dormire… Eppure in questo poco c’è moltissimo.
Basta sospendere il giudizio e le regole che consideriamo la norma - empatia, gentilezza, resilienza… - per entrare nel mondo al rovescio di questa storia, dove il conscio è messo forzatamente in pausa da orde di farmaci e l’inconscio fa sentire la propria voce. Una voce che nel finale diventa così limpida da togliere il fiato.
Ti seguo sai?
Dai personaggi alle persone, dalla fiction al romanzo autobiografico.
Di Vitaliano Trevisan si è parlato poco, mentre era in vita. Non era una persona facile, per sua stessa ammissione. Dopo la morte, nel 2022, si è tornati a pubblicare le sue opere, a leggerle e a scriverne.
Vale anche per Works dove a essere scomodo non è il protagonista, alter ego dell’autore, ma il contesto in cui nasce, cresce, studia, lavora. E scrive.
(Apro e chiudo una parentesi: quando a lezione parliamo di urgenza narrativa a me vengono sempre in mente il manovale-lattoniere-geometra-muratore-portiere di notte Vitaliano Trevisan e il magazziniere Learco Ferrari, alter ego di Paolo Nori. Penso alle loro traversie, a come non arrivavano a fine mese ma arrivavano sempre, sempre, a leggere e scrivere).
E per fortuna Vitaliano Trevisan scrive, nonostante tutto.
La condizione di notorietà senza successo, nel senso di successo di vendite, e il fatto di di vivere dove viviamo, ci espone, quasi quotidianamente, a ben più miseri e noiosi fastidi. Come essere fermati per strada da qualcuno che non conoscete, che si presenta come vostro lettore, ma quasi sempre non lo è, e vi attacca un bottone - magari attaccasse bottoni nel vero senso della parola!; se poi rammendasse anche calzini, sarei disposto ad ascoltarlo per ore; comunque, piccola sartoria o no, sempre meglio di essere fermato da qualcuno che magari conoscete, ma non vedete da tempo, che vi dice che è tanto che non vi vede, ma vi segue, Ti seguo sai?, dice, Ti seguo da sempre - ed è qualcosa che mi inquieta, voglio dire l’idea che qualcuno mi segua, e poi da sempre -; e comunque, di solito, immediatamente segue la domanda: E ora?, cosa stai facendo? Una pausa. Magari i cazzi miei? La tentazione è sempre forte, ma mi domino e di solito, salvo qualche rabbiosa eccezione, mi limito a rispondere che sto scrivendo.
Rileggo queste righe a distanza di quasi dieci anni dalla prima edizione.
Penso a quanto peso abbia acquisito la parola follower, a cosa si sia disposti a fare, in molti settori, per trattenere e accrescere la mole di follower e a quanto abbia stancato questa esasperazione. L’ironia amara di Vitaliano Trevisan assume un’aura profetica.
Io non sono sempre stato io
Si potrebbe pensare che le storie e i personaggi scomodi siano adatti solo a un pubblico adulto. E ci si sbaglierebbe di grosso. Se molta letteratura per adulti e per ragazzi propina personaggi stereotipati, trame che seguono sempre lo stesso andamento e una lingua piatta, esistono eccezioni felici per tutte le età.
Come Dentro me, un libro di Alex Cousseau (testo) e Kitty Crowther (illustrazioni) portato in Italia da Topipittori. Gli adulti a cui l’ho mostrato sono rimasti colpiti per la forza dei temi trattati e delle immagini. Quasi tutti l’hanno considerato non così adatto ai bambini: troppo poco rassicurante. Inizia così.
Io non sono sempre stato io.
Prima di essere me, non ero dentro me. Ero altrove.
Altrove è tutto tranne me. Solo poi, sono diventato veramente io.
La norma, quando si tratta di narrativa per l’infanzia, spesso diventa tanto stringente da limitare la creatività. Fortunatamente esistono da sempre autori e autrici, editori e lettori che dei limiti se ne fregano e creano storie potenti, come questa. Creano letteratura.
I bambini a cui ho proposto Dentro me - uscito una decina d’anni fa, epoca in cui tenevo laboratori per i giovani lettori nelle biblioteche - l’hanno visto non come una minaccia ma come una storia. E le storie, si sa, hanno voci diverse. Ad alcuni è piaciuta, ad altri meno, proprio come accade con qualsiasi altro titolo. Una bibliotecaria mi disse che era il libro preferito di sua figlia di 4 anni.
L’editore commenta così la scelta di questo titolo:
Che Dentro me fosse “un osso”, ce ne siamo accorti subito, al salone di Montreuil, quando lo abbiamo sfogliato per la prima volta. Perciò, una volta deciso di pubblicarlo, ci siamo armati di pazienza, pensando che ci sarebbe voluto tempo perché fosse accolto e compreso.
Qui l’articolo completo.
È amaro
Mi sono interrogata a lungo se fosse giusto dedicare la newsletter del mese a storie e personaggi scomodi. La vita è già abbastanza scomoda di suo, se ci si mettono pure i libri che dovrebbero allietare o quantomeno alleggerire il tempo libero… È un’obiezione ragionevole per chi cerca letteratura di consumo, d’intrattenimento.
Per chi nella letteratura cerca anche arte - e l’arte è spesso scomoda - ecco una poesia inedita di Stephen Crane, autore nato nel 1871 e morto nel 1900, a differenza delle sue parole che continuano a vivere e non hanno età.
La traduzione è di Damiano Abeni.
Nel deserto
Nel deserto
ho visto una creatura nuda, una bestia
che, accovacciata,
reggeva tra le zampe il proprio cuore
e lo sbranava.
Domandai: “Amico, è buono?”
“È amaro – amarissimo”, rispose.
“Ma mi piace
perché è amaro
e perché è il mio cuore”.
L’ho incontrata qui.
Ci vediamo su meet?
La newsletter è l’occasione per portare fuori dall’aula e dal mio studio alcune letture e considerazioni sulla scrittura che raccolgo strada facendo. È un modo di condividere, non è l’unico.
Per questo ti invito a un incontro su meet.
Sarà giovedì 20 giugno dalle 19 alle 20.
È un modo per conoscerci o ritrovarci, per parlare di storie, per scrivere insieme. Un po’ com’è accaduto durante l’incontro di dicembre, per chi c’era.
Era un esperimento, l’ho trovato un esperimento felice dunque perché privarsene?
Basta rispondere a questa mail chiedendo di partecipare.
Se sei il più criptico tra gli ermetici e il tuo indirizzo mail è xyz@boh: firmati, così capisco come ti chiami.
Manderò il link all’incontro all’indirizzo mail da cui mi scriverai.
Non è registrato: chi c’è, c’è.
Questa è una newsletter mensile: mi farebbe piacere sapere che ne pensi.
La prossima uscirà il 7 luglio.
Buon mese di giugno,
Ciao Silvia, la tua newsletter mi ha fatto pensare al romanzo che sto leggendo proprio in questo periodo: L'Arte della Gioia di Goliardia Sapienza. La sua storia editoriale è sicuramente quella di un romanzo scomodo, ma quando ho iniziato a leggerlo mi sono resa conto di quanto Modesta sia un "luogo" (mi piace molto considerare i personaggi come dei luoghi) inaspettato, a volte impervio. Un luogo con piazze bellissime ma strade dissestate, dove si inciampa se non si sta attenti. Un luogo con tantissime traversine che si imboccano senza sapere come e che "non spuntano", come diciamo a Catania, cioè strade che finiscono magari con un grande muro che permette a Modesta di sommergerci.
Grazie Silvia, che bella questa puntata scomoda. Visto che hai citato "Dentro me", aggiungo un libro a cui sono arrivato, non so in che modo (ma il bello degli approdi è il percorso casuale): si tratta di "Greta la matta" di Geert De Kockere e Carll Cneut, ispirato all'omonimo dipinto di Peter Bruegel il Vecchio.
Un libro imprendibile, che io ho scoperto un paio di mesi fa (anche se uscì nel 2005) e di cui ho rinnovato già due volte il prestito in biblioteca perché non riesco a liberarmene - lo comprerò, ma è proprio questa forma di possesso provvisorio che me lo fa sentire paradossalmente più vicino.
Elucubrazioni a parte, è un libro che a leggerselo anche da solə ad alta voce fa sentire le parole usate in maniera così precisa e affilata, che ti esplode dentro in tutta la sua potenza.
Di una smodata scomoda bellezza.